Ex Montedison di Santa Maria degli Angeli, l’Arco e la Trave

Ex Montedison di Santa Maria degli Angeli, l’Arco e la Trave

L’Arco e la Trave

Tratto dal lemma Arco del libro:

Le Parole del corso. Abbecedario per un corso inattuale di composizione architettonica.

Il Formichiere, 2018

voce recitante Wladimiro Maisano

di Bruno Mario Broccolo (a cura di Oicos riflessioni)
L’arco è la versione “tesa”, “nervosa” della trave. , Mentre la trave “sta”  sfrutta la propria mole, la propria inerzia, per fronteggiare i pesi, l’arco sfrutta la propria forma. La trave nasconde le linee di forza che la percorrono. È vero: anche l’arco lo fa, ma in maniera forse più discreta, meno evidente.

La linea dell’arco indica il percorso delle linee di forza: in questo senso è la materializzazione di quell’invisibile forza di gravità, con la quale, volente o nolente, tutti gli architetti devono fare i conti. L’arco ha bisogno di riposare sui lati, che quindi vanno disegnati con cura. I punti fondamentali dell’arco sono le reni e la chiave, e cioè  il centro dell’arco. La chiave è laddove le tensioni trovano, per contrasto, il loro equilibrio.

L’arco e la trave  permettono l’apertura, il varco. Non saprei direi se la trave sia stata inventata vedendo, per esempio, un albero caduto tra due sponde di un ruscello. Nell’architettura moderna (meglio: nel professionismo moderno), si tende a far scomparire le travi, nascondendole nello spessore dei solai (le cosiddette travi “a spessore”), quando invece possono benissimo entrare, con tutta la loro fisicità,  nella definizione spaziale di un ambiente. Se non vi è necessità di un particolare illusionismo strutturale, le travi possono benissimo rimanere in vista. La trave è generalmente di forma rettangolare, ma non è detto che sia sempre così. Quando è molto alta può essere bucata, nell’anima. O può evolvere verso una forma ancora più leggera, come la  reticolare, per esempio. Può  essere di sezione circolare, ovviamente (resiste meglio alla torsione). Quando l’andamento longitudinale non è omogeneo, ma c’è una sorta di rastremazione, per cui si affina verso il centro, essa si avvicina all’arco. Si fa più esile al centro, ma ha bisogno di spalle più forti ai lati.

L’arco vorrebbe appoggiarsi naturalmente su muri o piedritti. Tuttavia lo facciamo spesso “rimbalzare” da una colonna all’altra, correndo poi a rinforzare con tiranti di ferro la tenuta del sistema perché le colonne non reggono le spinte laterali. Molti dei nostri chiostri conventuali hanno bisogno proprio di soluzioni come queste. Penso per esempio all’Ospedale degli Innocenti di Firenze. I grandi facevano spesso terminare la teoria d’archi con un “pieno” (due paraste accoppiate), un arco cieco, un muro, uno sperone, per compensare le spinte laterali.

Una successione di archi vive in virtù del ritmo che riesce a creare tra i pieni ed i vuoti. In relazione a questo ritmo l’arco può essere visto come una bucatura (un ente in absentia?), o come una costruzione, in positivo. Laddove prevale il vuoto e vi è una successione di archi, diventa un pieno esso stesso: diventa il soggetto principale.

Rispetto all’arco, la trave ha il vantaggio di poter essere “a sbalzo”, funzionando strutturalmente  in maniera completamente diversa.

Il testo recitato dall’arch. Wladimiro Maisano, assessore alla  cultura del comune di Palmi (Reggio Calabria)

 

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