Padre Enzo Fortunato, ognuno deve fare la sua parte
Pochi conoscono uno dei segreti del mondo francescano, che da sempre sono in prima linea per stare accanto a chi soffre: «Chi ha doni, chi non ha prenda» è la filosofia che guida i figli di san Francesco, in modo particolare in questo periodo terribilmente difficile. I segnali spia di questo momento faticoso sono le centinaia e migliaia di lettere che continuano ad arrivare alla comunità francescana del Sacro convento di Assisi, così come i messaggi inviati attraverso la rete.
E non c’è differenza fra quelli scritti durante la “prigione” del lockdown e quelli pensati oggi “bussano” alla porta del Sacro Convento raccontando le loro storie, paure e richieste d’aiuto. Certo, in alcune parti del Paese c’è meno paura del virus, anche se si è consapevoli di un rischio sempre presente. Ma la vera preoccupazione — ieri come oggi, e sicuramente per domani — riguarda la quotidianità: il lavoro incerto e precario, una difficoltà ad assicurare alla famiglia condizioni di vita dignitose, un orizzonte che si è fatto più stretto e nebuloso.
Questo è il messaggio che ci arriva dalle lettere: è una traversata del deserto. E sempre più forte è la consapevolezza che da soli — ognuno per sé — non ce la facciamo: troppo alte e ripide sono le pareti da scalare. Ognuno deve fare la sua parte, certo, ma chi più ha più deve dare. A cominciare dallo Stato, nelle sue varie articolazioni. Servono valori e cultura, empatia e tecnologia — abbiamo detto nel Manifesto di Assisi «Nessuno si salva da solo» scritto da religiosi, imprenditori, politici e protagonisti della società civile — e una vera coesione sociale, nella quale volontariato e terzo settore sprigionino tutta la loro forza e umanità.
Vorrei citare tutte le lettere che ci sono arrivate. Mi limito ad alcune. Come quella di Rita, casalinga: «Oggi è un giorno un po’ così e mi sento giù. Domani scade il contratto di lavoro di mio marito e la cassa integrazione che mi spetta tarda ad arrivare. Non sono i sacrifici che mi spaventano ma vivere in questa incertezza è estenuante». Oppure Matteo, cameriere stagionale: «Con il guadagno della stagione riesco a vivere tutto l’anno e perfino a fare progetti con la mia fidanzata. Progetti che si stanno sciogliendo come neve al sole, perché la stagione non è iniziata e forse non inizierà per le riduzioni di personale. Non chiedo molto: vorrei solo servire ai tavoli, farlo con il sorriso come ho sempre fatto e trovare nella soddisfazione degli altri anche la mia, che è un po’ il cuore di tutti i lavori». O ancora Nunzia, insegnante precaria: «Vedo il buio e cerco di mantenere il timone di questa famiglia. Non è facile, sono abbattuta, ma con i miei figli non posso abbattermi». Poi Americo costretto a vivere con 298 euro al mese, padre di due figli che non vede un futuro: «Mi sento abbandonato… questa è la pura e mesta verità» sono le parole con cui chiude la sua lettera. Allo stesso modo una madre bagna ogni notte il cuscino con le lacrime, perché non ha il coraggio di dire alle figlie che non è più in grado di mantenerle negli studi: «Padre mi aiuti!», è questo il suo appello.
Mentre scrivo, una signora suona alla porta della redazione. Viene da vicino Norcia, terra già flagellata dal terremoto. Inizia a raccontare la sua storia, senza smettere di piangere. La famiglia della signora ha un’azienda agricola; sono lei, il marito e due figli. Tutti lavorano lì e abitano su una casetta mobile. Un incendio ha distrutto il loro capannone. In questi ultimi mesi hanno dovuto acquistare il fieno, 4.500 euro, per poter alimentare gli animali, ma per farlo hanno terminato tutti i soldi.
Il fieno attualmente è coperto da un telo, sotto le intemperie rischia di rovinarsi. Non hanno più i macchinari per potere raccogliere quello che coltivano. Riuscire a risolvere il problema del capannone e dei macchinari potrebbe aiutarli a rimettersi in carreggiata, ma le uniche entrate economiche sono la pensione minima del marito (600 euro) e il reddito della signora (300 euro, con cui devono vivere in quattro e provvedere a loro stessi, alla loro attività e a figli da curare.
Appena la signora capisce che da parte nostra c’è la volontà di aiutarli, il pianto di disperazione, che fino ad ora aveva accompagnato il racconto, diventa un pianto liberatorio e di gioia. So che in molte realtà si sta incarnando la Chiesa del grembiule. Con una consapevolezza: che senza la preghiera siamo troppo poveri per aiutare i poveri. E mi viene in mente quell’«Amazing grace» cantata al mondo — imprigionato dal lockdown — da Andrea Bocelli sul sagrato vuoto, ma imponente, del Duomo di Milano: … un tempo ero perso, ora mi sono ritrovato… e la grazia ci condurrà a casa. O ancora Gianni Morandi che canta «si può dare di più» dal prato antistante la Basilica di San Francesco, simbolo del cuore di una Italia che vuole riprendere.
Commenta per primo