Comunità di Torchiagina, altre testimonianze molto dolorose

Il racconto di due donne, una giovanissima che è fuggita da una struttura

Comunità di Torchiagina, altre testimonianze molto dolorose

Comunità di Torchiagina, altre testimonianze molto dolorose

Ponendo come premessa che il tutto dovrà, come è giusto che sia, essere dimostrato e confortato da eventuali indagini e conferme della Giustizia e che i fatti narrati appartengono ad un lontano passato (quindi non riconducibili all’indagine in corso), ci accingiamo a raccontare due storie davvero drammatiche e dolorose. Entrambe che, in periodi diversi, riguarderebbero la struttura di accoglienza, per persone con una qualche forma di disabilità psichica, di Torchiagina di Assisi e un’altra satellite situata nelle Marche. La struttura di Torchiagina, lo ricordiamo, è oggetto di una indagine dei NAS, coordinata dal sostituto procuratore della Repubblica, Michele Adragna.

Il primo caso è quello che riguarda un uomo, nato nel 1955, e che nel 2002 sarebbe morto all’interno della struttura assisiate. «Arresto cardiocircolatorio mi hanno detto», riferisce la sorella ancora molto scossa a distanza di anni. «L’ho trovato, però, molte volte massacrato – racconta -, ma gli operatori giustificavano la cosa dicendo che avevano litigato tra pazienti ospiti della struttura». La sensazione che la signora aveva era che gli operatori, almeno alcuni di essi, fossero piuttosto rudi, diciamo così, nei modi. «Portavo chili di salsicce, crostate – ricorda – e avevo la sensazione che non gli dessero da mangiare, perché quando lo riportavo a casa, mangiava in continuazione». La signora racconta anche che “andare a far visita era difficile, volevano essere avvisati prima”. La struttura – sottolinea la donna -, siccome sta a non molta distanza da casa sua, pensavo che potesse essere una agevolazione per andarlo a trovare. “Non mi ricevevano se non avvisavo”, dice, stigmatizzando anche la “rigidezza” che sarebbe stata imposta all’interno della struttura.

L’altra storia, invece, riguarda una giovanissima dottoressa che a Torchiagina è entrata, per esigenze terapeutiche, dieci anni fa. La ragazza è entrata in comunità a 17 anni: “Ero minorenne – racconta – avevo dei disturbi e sono stata indirizzata dal centro di salute mentale della mia città in quella struttura”. La giovane non poteva, in sostanza, rimanere a casa in quanto i genitori, la mamma in particolare, aveva un problema neuropsichiatrico serio. «La mia esigenza – spiega – era quella di trovare una struttura che mi permettesse di fare una vita normale e di staccarmi dal contesto familiare». Il CSM, dopo una serie di tentativi, l’ha indirizza a Torchiagina, sapendo già che si sarebbe poi dovuta spostare in una “struttura filiale” più adeguata alle sue esigenze, appunto nelle Marche.

«Una struttura meno costrittiva – la descrive – e più adeguata a me e agli studi che stavo portando avanti». La dottoressa racconta così il momento in cui è arrivata a Torchiagina: “E’ stato agghiacciante – dice – c’era una sensazione di abbandono, e la cosa che mi colpì subito fu che tutte le persone si dovevano lavare i denti usando una specie di fontanella, questo a prescindere da qualsiasi temperatura ci fosse fuori». La giovane ricorda che erano ospiti diverse tipologie di pazienti. “La maggior parte dei pazienti – spiega – era però incapace di intendere e di volere e quindi soprattutto pazienti psichiatrici che venivano trattati in una maniera, prevalentemente, intimidatoria“. La dottoressa si spiega meglio dicendo: “Erano quelli che, ovviamente, erano meno gestibili i tutti. Noi che capivamo la condizione in cui eravamo – aggiunge – cercavamo di dare meno problemi possibile». La ragazza fa poi qualche esempio, frugando nella memoria per raccontare qualche evento significativo. Nelle occasioni in cui erano tutti insieme, a pranzo e a cena: “Ho assistito a schiaffi, botte, pugni per cose futili, ho assistito a persone che sono state lasciate fuori al freddo, anche nonostante la pioggia – ricorda – senza alcun tipo di assistenza o di cura».

Un’altra cosa che la giovane avrebbe notato è anche l’atteggiamento intimidatorio che, pare, ci fosse tra gli stessi operatori. «C’erano – ricorda – operatori particolarmente aggressivi. E non c’era alcun tipo di assistenza medica o psichiatrica, era una specie di capo di lavoro. E durante la mia permanenza a Torchiagina ho avuto bisogno di curarmi e di andare in ospedale per i problemi di salute che ho». Regime duro, in sostanza, che dalla nostra testimone non viene definita “struttura rieducativa, riabilitativa o assistenziale”. La giornata era scandita da orari lavorativi e basta. «Quelli maschili andavano al pascolo – racconta – perché c’è uno spazio enorme aperto dove ci sono agli animali. Le femmine dovevano occuparsi dei lavori tipo lavare anche le mutande dei maschi o lavare in terra o le camere, dovevamo fare questo dalla mattina alla sera». Alla domanda a quanti episodi di violenza avesse assistito, la dottoressa ci risponde che: “Io stessa sono stata oggetto di violenza, sono stata percossa, ma nella struttura delle Marche”.

Le chiediamo per quale ragione è stata picchiata e ci racconta: “Era stanca e avevo bisogno di riposare e chiedevo se potevo avere qualche ora di pausa o semplicemente fermarmi un giorno semplicemente a non fare niente. I miei problemi di salute – sottolinea – non mi permettono di fare molti sforzi. Ricordo che l’operatore insisteva, insisteva…io non ce la facevo e questo m’ha picchiata”. L’addetto, dopo aver urlato, l’avrebbe colpita con degli schiaffi sulle gambe. Alcuni mesi a Torchiagina e poi il trasferimento nelle Marche dove è rimasta circa un anno, fino quando non è letteralmente fuggita via. Sulle metodiche di gestione dei pazienti dice: «Assolutamente identico (a Torchiagina ndr) – afferma – anche nella struttura marchigiana, l’unica agevolazione era che potevo andare a scuola. Essendo ancora da sola in quella struttura mi avevano totalmente schiavizzato. Non avevo un attimo di respiro, dovevo occuparmi della casa, pulire, pulire, costantemente, ogni cosa dalla mattina alla sera».

Alla domanda se le lasciassero il tempo per studiare, la dottoressa risponde: “No, non avevo tempo per fare nulla. Poi sono ‘sbottata’, ma la responsabile mi ha minacciato che mi avrebbe rispedito a Torchiagina, ma io non ce l’ho più fatta e sono scappata via”. Dalla struttura è scattata la denuncia della scomparsa della giovane che, ne frattempo, si era recata presso gli avvocati della madre. Ma per arrivare a loro, quando è fuggita, si è fatta proprio dare una mano da una persona che ha trovato per strada. I legali non ci potevano far nulla, né lei voleva tornare a casa, è tornata in ospedale – da dove era cominciato tutto – e lì è stato discusso del perché era scappata dalla struttura delle Marche.

«Volevano che ritornassi lì – racconta -, ma ho detto assolutamente no! Ne avevo sofferte troppe. Lì o eseguivi gli ordini o prendevi le botte, nessuno osava fiatare, nell’esprimere un desiderio o esprimere anche solo un disagio. Tutti soffrivamo per il fatto di stare lì dentro – precisa – e credo che una buona parte delle persone che stavano lì dentro siano scappate». Inutile dire che anche la speranza, in quelle condizioni di presunte vessazioni, di poter ricorrere alle forze dell’ordine, venisse meno. Il terrore in sostanza per chi provava a scappare era quello di essere ripreso e poi riportato a Torchiagina. «Molte persone – ricorda – hanno tentato di scappare, molte sono state riprese, altre no. Il responsabile metteva subito sempre in chiaro, sin dall’inizio, di evitare ogni tipo di fuga perché sarebbero stati circondati e presi dalle forze dell’ordine».

Dalla dottoressa che, evidentemente nel corso di questi anni si è documentata, parte un attacco durissimo nei confronti delle strutture di accoglienza: “I comportamenti di Torchiagina non sono affatto isolati, in qualche maniera i Centri di salute mentale – dice – sanno benissimo quali sono le realtà di queste strutture, perché di Torchiagina ne esistono altre. Però, purtroppo, le persone che non possono parlare per evidenti problemi, non possono esprimere quello che è il loro disagio». Si tratta, di fatto, di “invisibili” la cui condizione viene, dunque, ignorata. «Io conclude – dal momento che sono tornata a casa ho cercato di denunciare la signora che era nelle Marche, ma poi le cose sono andate via così. E’ una cosa che mi rimarrà per tutta la vita, quel trattamento e se non fossi fuggita di lì avrei perso il senno sicuramente».

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*